Ready Player One – Vai, con l’enciclopedia cyber-pop!

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La recensione del nuovo blockbuster del grande Spielberg, che torna al fantastico con un lavoro perfettamente cyberpunk che deliberatamente si rivolge sia ai 35-40enni nostalgici dei prodotti e dell’armamentario nerd e geek, sia alle nuove generazioni di nativi digitali, in un vortice spettacolare e citazionista acchiappa-tutti!

Forse non esiste un vero paradiso dei nerd, ma non è detto che non esisterà mai, perché intanto questo blockbuster di Steven Spielberg ne fornisce una straordinaria rappresentazione. Peraltro, bastano due numeri a restituire la portata di questa operazione del grande regista americano: il budget è stato di 175 milioni di dollari, e al box office, solo dal 26/3/2018 all’1/4 dello stesso anno, ha raggranellato € 2.037.067.

Nel 2014 la regia della pellicola,  trasposizione cinematografica di Ready Player One, romanzo videoludico di Ernest Cline, era stata per la verità proposta prima ad altri colossi come Christopher Nolan, Robert Zemeckis e Peter Jackson, oltre a Matthew Vaughn e Edgar Wright ma infine è stata affidata nel marzo 2015 a Steven Spielberg, che ha colto così l’occasione, sul piano personale, di dimostrare una volta in più di avere non solo la mano sicura nel realizzare cinema impegnato, “adulto”, ma di continuare anche ad avere uno spirito teen (come suonavano i Nirvana) sensibile a quelle leggi dell’intrattenimento declinato al fantastico che lo ha eternato come il creatore di “E.T. – L’Extraterrestre”, “A.I. – Intelligenza Artificiale” e “Jurassic Park”. Un giovane amico cyberpunk mi ha scritto in privato che “la cosa che più mi è piaciuta e stata io contrasto tra la realtà decadente e la controparte virtuale Idealizzata”; in effetti il concetto chiave del cyberpunk è qui perfettamente rispecchiato: il contrasto tra low life (stile di vita basso dovuto alle condizioni socio-politico-ambientali presenti sul pianeta) e high tech (alta tecnologia che permette alle multinazionali di arricchirsi speculando sul desiderio della gente di trovare surrogati alla felicità mancante in devices tecnologici, anche per non “restare indietro”) è molto forte, e sottolineato anche dalle scelte tecniche della regia: le scene in virtuale sono tutte girate in digitale, quelle del mondo reale in pellicola. In questo caso, un po’ come nel nostro presente, il virtuale è una fuga dalla realtà, e mentre in “Matrix” la realtà costruita era una finzione ipocrita che mal celava lo sfruttamento e il controllo pervasivo, qui in “Ready Player One” la megacostruzione digitale sterminata è altamente desiderabile, è “idealizzata”, come dice giustamente il mio amico, anche se va tenuto conto che se il virtuale è una prigione per le sorelle Wachovski, l’OASIS di Spielberg non è proprio un’oasi ma piuttosto un’arena  in cui è fortissimo l’aspetto agonistico, tra i giocatori: chi perde non finisce magari morto o ferito, ma perde forti somme che aveva precedentemente investito in gadgets virtuali, come armi o skills varie, per poter arrivare a quello stadio del game e quindi rischia di ritrovarsi rovinato nel mondo reale.

La lotta si fa poi più dura perché James Halliday, il fondatore dei mondi alternativi di OASIS, e stereotipo del nerd di successo, lancia post mortem, tramite il suo avatar Anorak l’Onnisciente (attributo che è anche un rimando extratestuale al più comune ruolo del narratore, in Letteratura), un contest per l’attribuzione del controllo di tutta la piattaforma più cinquecento miliardi di dollari! Gli indizi per trovare le tre fatidiche chiavi risiedono nel passato del fondatore, e questo motiva in misura maggiore i gamers (e gli spettatori) alla ricerca appassionata negli strati di pop culture di cui Halliday si era pasciuto durante la sua vita. Ma vorremmo cercare di non rivelare troppo, anche se, dal 2018, ormai sarete in molti ad aver visto questo “giocattolone”, come venivano chiamati forse qualche tempo fa, criticamente, i film ipernutriti di effetti speciali. Si diceva (o si dice ancora?) che in questi casi la pellicola rischia di non avere molta “anima”, ma in questo caso può dipendere dal punto di vista e cioè in buona parte dall’anagrafe dello spettatore. Non è del tutto vero, perché si colgono comunque anche temi profondamente umanisti cari a Spielberg, come l’assenza/lontananza dei genitori, e la forza dei ragazzi nel trovare la propria strada da soli, e una cera aura spirituale in cui affluisce il mistero, però, primariamente, quello che Spielberg ha costruito è un vero e proprio multiverso, ovvero un universo multiplo con intere raffigurazioni di mondi-ambienti tutti da vivere, o meglio di cui fare esperienza immersiva come di un videogioco; è intarsiato e imbibito di cultura pop sparsa a piene mani in un’apoteosi di quella ben nota caratteristica postmoderrna che è il citazionismo. Il rutilante balenìo, durante i vertiginosi movimenti di macchina dietro alle funamboliche evoluzioni degli avatar dei protagonisti, di simboli e figure dell’immaginario popolare, dentro OASIS, stordisce lo spettatore ma non gli impedisce di certo di constatare come, in generale, la massa dei riferimenti ai media di massa (il gioco di parole è voluto) si impasta in sovrapposizioni che formano un unico prodotto: questo film, appunto; che ci mostra il lato distopico che potrebbe assumere la nostra civiltà ma anche la ricchezza un po’ ridondante di proiezioni del passato sul futuro, e di vecchi futuri immaginati su un mondo che li ha superati eppure per nostalgia li tiene vivi. In fondo è quindi un discorso sulla nostra Storia, non solo recente, ma anche sulla persistenza e sulla riproposizione dei miti; non è andata così anche tra Omero e Joyce? In sfide come queste, la chiave è rendere credibile l’incredibile. E allora ecco che, se da un lato siamo chiamati a credereche in futuro si svilupperà il settore dell’intrattenimento (legato a enormi interessi economici) finalizzato però anche all’istruzione, vediamo dall’altro che nel 2045, anno in cui è ambientato il film, il mondo sta per collassare per l’inquinamento e la sovrappopolazione, e la stragrande maggioranza della gente vive in baraccopoli fatte di strutture verticali, le Cataste, in cui tira avanti alla meno peggio (quasi come me, costretto a fare da badante per diverse ore al giorno ad una familiare demente, dispettosa e infida; dovrei darle delle droghe sintetiche calmanti ed estetizzanti oltre al pesto e ai fagioli, o dovrei fuggire in Madagascar con una nuova identità e degli occhialoni stroboscopici? Questo per la serie: “Come può essere cyberpunk-grottesca la vita pure nel 2019” – speriamo meglio per quest’anno!) Chi oggi guarda lo smartphone perfino al cinema o al museo di Belle Arti non stenterà a credere neanche un’altra cosa: che se l’umanità dovesse diventare ancora più selvaticamente indifferente o autodistruttiva una soluzione molto comune sarebbe quella di rifugiarsi in un mondo virtuale popolato da avatar che si sfidano soltanto per accumulare soldi e armi, ottenere un upgrade e divenire i campioni dello Space Invaders di turno.

Eh già, perché il defunto ideatore di OASIS, James Halliday (interpretato dal premio Oscar Mark Rylance (già in “Il ponte delle spie” e “Dunkirk”) viene definito brillante ed eccentrico per le sue difficoltà relazionali da nerd ma soprattutto perché profonde a piene mani nella sua creatura, il meta-videogioco, innumerevoli meme culturali pop che ne decretano il fascino planetario; suscitando l’entusiasmo e l’accanimento delle masse di giocatori che cercano le tre chiavi che, livello dopo livello, porteranno all’Easter egg nascosto chissà dove dal guru nello sterminato mondo alternativo, e il cui possesso attribuirà la vittoria e la sopravvivenza dello spirito sano con cui esso è stato concepito. Una vita miserabile negli slums può essere cioè riscattata attraverso una caccia che non si svolge semplicemente in un ambiente effimero, plastificato e futile, ma in un mondo che condisce la sua euforica intangibilità con enigmi nascosti in ricordi perduti o sfumati, che richiedono intelligenza e cognizioni di Cultura Moderna per districarsi anche tra le ombre di un passato tenebroso che danno sapore e profondità alle potenzialità di un futuro fantasmagorico e imprevedibile. Il film lascia ampiamente prevalere l’aspetto istintuale, non aspirando ad essere un trattato audiovisivo sulle prospettive temporali o le sue curvature: il protagonista è un giovane eroe, Wade Watts (interpretato da Tye Sheridan) che vive anche lui nei baraccati e che però si è ricavato una tana dentro una specie di discarica di vecchie automobili, in cui porta la sua attrezzatura per i viaggi nell’altra dimensione,

Copertina del libro di Cline

e perciò immedesimandosi, anche lo spettatore critico non può condannare questo escapismo (“ideologia” dell’evasione) quando esso (e tutto il film) è così motivato. Tanto più se si resta all’aspetto istintuale, dato che il tutto è scandito da una colonna sonora così trascinante, per metà a base di musiche originali da film (composte da Alan Silvestri, abituale collaboratore di Robert Zemeckis), ma composta anche, in un secondo CD, da pezzi che hanno segnato l’immaginario dei gasati Eighties come quelli di Prince, Tears for Fears (con la loro “Everybody Wants to Rule the World”), toh!, pure Bruce Springsteen, ma poi Blondie, gli Earth, Wind & Fire, I neoromantici New Order, ma anche I Bee Gees, I Twisted Sister e il duo Hall & Oates, tutta roba che più o meno rimanda all’estetica dei videoclip e alla diffusione planetaria di una musica che rielaborava qualche idea del decennio precedente confezionandola con suoni nuovi e facendone hit da classifica. E l’attacco è affidato a “Jump” dei Van Halen, eh?, mica roba da sonnolenza post-pranzo.

Il pubblico si ritrova alla fine completamente esausto, a metà tra lo sbigottito e l’affascinato, si resta senza parole dinanzi ad un’opera come questa per cui il termine “contemplazione” è inappropriato perché il dinamismo è tanto spinto che si teme di essere ridicoli e “vecchi” anche solo a desiderare di potersi soffermare di più su un frame o una figura. In compenso, l’omaggio più profondo e prolungato è ad un’opera che impronta di sé un’intera scena di “Ready Player One”: è un film tanto celebre, iconico e d’autore che meritava questo trattamento. Parliamo di “Shining” di Kubrick (colosso inarrivabile per eccellenza della Settima Arte, cui l’altro mago Spielberg già ha teso la mano idealmente quando accettò di realizzare “A. I.” da un progetto originale che Kubrick, da poco scomparso, non aveva potuto realizzare), le cui scenografie e personaggi/apparizioni, per effetto di manipolazioni sofisticate ultradigitali, per così dire, vengono riproposte, anzi direi riplasmate e meticciate con i personaggi e l’azione di “Ready Player One” come sfondo per un inabissamento in un settore “malato” dell’immaginario di OASIS. Di certo non a caso, per queste mirabolanti sequenze, nel 2019 il film ha vinto due VES Awards: per il Miglior ambiente creato in photoreal (l’Overlook Hotel di “Shining”, appunto), e per la Miglior fotografia virtuale (per la vertiginosa prima sfida di Anorak: una gara automobilistica sulle strade di Manhattan, a New York).

Come accennato, Wade Watts (che ha quel nome perché al padre ricordava quello degli alter ego di supereroi come Peter Parker o Bruce Banner, i cui nomi e cognomi iniziano con la stessa lettera) tanto per stimolare, oltre ai trentacinquenni rimasti legati ai feticci della loro adolescenza, anche le nuovissime generazioni dei nativi digitali, è un giovane di 17 anni, orfano, che vive con sua zia in una baraccopoli a Columbus, nell’Ohio, ma su OASIS è apprezzato con il nome di Parzival, non proprio una citazione ma un rimando all’eroe del ciclo arturiano che, unico per purezza, poteva riuscire a trovare il Sacro Graal. E la caccia al tesoro, in questo fantastico universo artificiale fatto di misteri, scoperte sensazionali e pericoli, può essere condotta con più efficacia quanto più i giocatori, come i ragazzi di oggi che vivono di riflesso il fascino della plastica di un Atari 2600 o di un Super Nintendo, riescono a sfruttare queste conoscenze che amano, e che non sono più inutile e accessorie, ma costituiscono la preziosa risorsa per trionfare in una competizione in cui la posta in palio è un universo pulito in cui vivere. Per Wade, la caccia prosegue, da un certo punto in poi, in compagnia di un altro personaggio aureolato di un mito antico: Art3mis (nome greco della dea cacciatrice Diana), scritto proprio così, la coprotagonista femminile, o meglio il suo avatar attraente e ben lustrato, che solo dopo aver superato una certa ritrosìa si mostrerà al naturale, nella versione “imperfetta”, ma capace di rimproverare a Parsifal di essere troppo scollegato dalla realtà e di perdere di vista il fatto che molti come lei desiderano vincere per motivi molto concreti, economici, ma non solo (ed il discorso metterà finalmente in luce l’aspetto oppressivo dell’organizzazione sociale legata ad OASIS e ai debiti in essa maturati). Ma anche negli archivi virtuali di Anorak, che contengono videoclip che ricostruiscono la vita di Halliday, si coglie con malinconia il modo in cui il grande ideatore super-nerd – ex ragazzino abituale esule già da allora in mondi quali Adventure o il labirinto di Pac-Manviveva il lato affaristico della sua passione, con l’errore fatale del suo ex socio in affari, Ogden Morrow, errore che ha consegnato ad Halliway il successo ma che gli ha alienato il suo unico vero amico; e le sue difficoltà col gentil sesso.

Il “villain” yuppie interpretato da Ben Mendelsohn

L’antagonista, il nuovo CEO della multinazionale Innovative Online Industries (IOI), Nolan Sorrento (interpretato da Ben Mendelshon), è il volto telegenico, “laccato”, della rapacità: impiega i migliori giocatori, i ricercatori di Halliday e i dipendenti a contratto chiamati “Sixers” (https://readyplayerone.fandom.com/wiki/Sixers)

I Sixers

allo scopo di vincere la gara e privatizzare OASIS, rendendola il suo parco giochi fatto di microtransazioni e schiavitù virtuale. Arriva al punto di rapire Art3mis, e in un altro momento praticamente azzera tutti i punteggi pur di non perdere.

Le due figure cardine degli anni Ottanta, il nerd e lo yuppie, sono quindi rappresentate, ma potevano essere meglio approfondite, ritagliando un maggiore spazio per la componente emotiva più sincera, secondo alcuni; questa si regge soprattutto sull’umanità di Mark Rylance e sulla simpatica vivacità dei giovanissimi, e già temprati, membri della squadra dei ribelli.

Se dunque i milioni di login al giorno ad OASIS per la facilità d’accesso (sono sufficienti un visore e un paio di guanti aptici) agli scenari iperrealistici e iperfantastici al contempo, sono giustificati, vale la pena di menzionare qui un bel po’ dei riferimenti presenti nel film, tenendo presente che Spielberg ha rimosso le citazioni delle sue stesse opere degli anni ’80, che invece sono presenti nel romanzo (il cui titolo già non è che la scritta che appariva all’inizio di una partita giocata nei videogiochi dei cabinati da bar degli anni ’80, sostituti futuribili dei datati flipper): vengono rispolverati grandi classici, icone della modernità, come King Kong e Il Gigante di Ferro, ma è presente anche un personaggio tremendo ma assai popolare come Freddy Krueger coi suoi artigli, l’automobile DeLorean del mitico “Ritorno al futuro” di Zemeckis, Supercar, Il Signore degli Anelli, Mad Max, Akira, Lara Croft, e Honda del videogame Street Fighter, il pionieristico, apripista Space Invaders (raffigurato su una T-shirt del creatore di OASIS Halliday, il furgone dell’A-Team, le auto di Speed Racer, la Batmobile del ’66, i Goonies appaiono per pochi frames in un computer su cui lavora uno dei tecnici della IOI, il Millennium Falcon di Guerre Stellari, il nome di Jack Slater e di Schwarzenegger che lo interpreta in “Last Action Hero”, la trovata di chiamare un cubo di Rubick come Cubo di Zemeckis e attribuirgli il potere di far tornare tutto indietro nel tempo per una manciata di secondi, l’insegna “Cocktail & Dreams” uguale a quella del film “Cocktail” con un giovanissimo Tom Cruise, il fucile avveniristico Pulse Rifle usato dai Marines nel film “Aliens”, e ancora: i Duran Duran, Ghostbusters, la copertina di “Unknown Pleasures” dei Joy Division stampata sulla maglietta indossata in una scena da Art3mis/Smantha, interpretata da Olivia Cooke, e poi viene adattato ad un altro personaggio il finale di Terminator 2, si riascolta volentieri “Take me on” degli A-Ha, e quando Wade deve scegliere un abito per un ballo lo vediamo provarsi anche quello di Michael Jackson nel videoclip di Thriller e la mise di Prince in versione Purple Rain.

La scena ispirata a Staying Alive

In questo nostro entrare nel vivo del nuovo millennio un po’ insicuri delle nuove idee, foraggiati soprattutto, da parte delle major, di rielaborazioni filmiche e seriali, in buona parte retrospettive a colpi di reboot e spin off e prequel, questo schizzare in avanti spielberghiano, che però al contempo anch’esso ci reimmerge nel nostro ieri, è una variazione sul programma che si può salutare con soddisfazione: un instant sci-fi trascinante e spettacolare, che si fa consumare, e ci consuma, voracemente.

Quanto ai valori trasmessi, viene fatto salvo e ben impresso, alla fine, il messaggio a favore di un equilibrio tra realtà e fuga nel virtuale: dopo essersi dimostrato capace di stupire ed emozionare, il film ci riproietta nel futuro in fieri che è il nostro presente, con un passaggio moralistico che può sembrare obbligato ma che viene porto senza retorica: il protagonista Wade, senza aver trascorso tonnellate di ore in Oasis, non avrebbe mai avuto una chance di salvezza, tuttavia ha constatato che la realtà, prima della sua rivoluzione, era purtroppo “fatta di gente che ha dimenticato di lottare per cambiare le cose”, ed ha imparato che invece bisogna impegnarsi e non perdere mai il vero sé e i veri amici, perché oltre il visore e il virtuale, l’unione fa la forza, soprattutto nel cinema, forma d’arte complessa e superiore proprio perché frutto di un’intelligenza collettiva, che sola, pur sotto la guida di un grande Maestro come Steven Spielberg, poterva permettere la creazione di un film come questo, che grazie alla passione condivisa, del regista e di un esercito di tecnici e collaboratori, per gli anni ’80, ce li ripresenta ma parlando con il linguaggio del 2018!

il7 – Marco Settembre
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