A scrivere distopie, ti saltano addosso loro e non le ragazze!

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Volendo usare un registro stilistico simpaticamente legato al quotidiano con screziature che s’avvicinano al genere semplicione (esiste?, vogliamo fondarlo?) o scazzato, potrei sin dall’inizio scrivere quest’articolo azzardando che il mio punto di vista sul tema del racconto recensito si avvicina al disorientamento degli allocchi che si chiedono se sia nato prima l’uovo o la gallina. In che senso? È presto detto: mi chiedo se sia più vero che a scrivere distopie si finisca per attirarsele addosso, o se sia più realistico che uno sia tanto bombardato da distopie personali vere che poi gli salta lo schiribizzo di scriverne una (o cento). Nella mia dolorosa e assurda esperienza di 57enne con lo spirito di un 35enne sono vere entrambe le cose: ovvero ho iniziato precocemente a scrivere storie o meglio spezzoni (l’unico racconto lungo che conclusi, “Soli e avversi”, è andato perduto, sigh!) quasi sempre distopici, e be’, forse per questo motivo, crescendo, da un certo punto in poi – più o meno questo Terzo Millennio – sono cominciati a fioccare casini assortiti, anche molto da film; però è anche vero che dopo il disastro più grande (da cui ne derivarono altri, un po’ distanziati) io per reazione ho preso a scrivere delle distopie che erano molto più acri e sarcastiche e semi-pulp di quelle che scrivevo da giovane. Per cui, diciamo che le distopie letterarie e quelle reali sono in qualche vago rapporto osmotico, senza che si possa identificare la relativa esatta formula fisico-matematica jellata, ma che questa deve necessariamente avere a che fare coi buchi neri e con la composizione chimica dello sterco di vacca.

Questa introduzione disforica che però – me lo concederete – ha anche un profilo leggendario (magari da “Storia o leggenda” come il disco de Le Orme) mi è sembrata necessaria per arrivare a parlare di un racconto della collega poetica e spiritosa nonchè charming che risponde al nome di Simonetta Olivo. La novella s’intitola appunto “A scrivere distopie” ed è contenuta nel tradizionalmente massiccio volume antologico targato Mondadori, per la collana Urania Millemondi che ci entusiasma e ha solide radici nel nostro cuore di appassionati, vero? Il numero è l’87 ed è del luglio 2020. La curatela fu del “mostro sacro” Franco Forte, a cui mi genufletto con esagerazione, e non si tratta di un dettaglio tecnico-libresco, perchè questa sapiente e ingombrantissima figura è stata sottilmente dileggiata in modo impertinente – e Mr. Forte è stato fortissimo nell’accorgersene senza offendersi minimamente – da parte dell’autrice di questo racconto, che paradossalmente ha osato ciò in un contesto narrativo che invece, per altro verso, non rifulge per immagini di coraggio ma al contrario fa simpaticamente venire il latte alle ginocchia a tutti i lettori e soprattutto a quelli che hanno il pallino della scrittura loro stessi a livello professionale o meno.

Ma dunque entriamo nella “leggerezza apparente” – nei termini di Franco Forte – di questa novella della Olivo, la quale già dall’incipit traccia il segno-guida: una drammaticità che è al confine di altre più serie e indefinite, e che per lo più è tale solo per la soggettività un po’ balorda del protagonista. Ma chi è costui? La cui storia è narrata in terza persona, quindi con il vago distacco oggettivo con cui un autore ci racconta le gesta dell’eroe, magari con tanto di “arco di trasformazione”, no? Ebbene, qui trattasi di antieroe, e l’autrice in questo caso (forse spesso) segue il sentiero di “parlare di ciò che conosce”, in quanto l’antieroe è uno scrittore che chiaramente – ma solo in parte, è ovvio – è un suo alter ego maschile. Dico “solo in parte” perchè la Olivo è comunque brava nel lottare con gli ostacoli e il suo racconto lo sforna ed è accattivante, mentre il protagonista è dilaniato tra l’importanza dell’occasione che un Editore gli concede (alias di Franco Forte, appunto) e la devastante consapevolezza che il suo racconto è “da buttare” e che SOPRATTUTTO il suo metodo è fallimentare, salvo miracoli. Però – pur evitando spoiler, o almeno ci provo – è pur vero che la vita ci prende per i capelli e ci sbatte violentemente in distopie o orrende o grottesche, ma ogni tanto per sbaglio le scappa anche il miracolo, quindi anche uno scrittore così alla fine potrebbe cavarsela per il rotto della cuffia.

E in effetti un amante della Fantascienza legge storie del suo genere preferito non solo per la cosiddetta anticipazione scientifica o per la speculazione astratta o quasi, ma per la quota d’avventura presente nelle pagine. In questo caso la domanda del lettore è: se dovessi immedesimarmi senza vergogne in uno scrittore così disorganizzato, vorrei sapere senz’altro se riuscirà a districarsi tra gli inceppi esterni e quelli interni e riuscire infine acrobaticamente a partorire l’opera, o penserei solo che l’editoria è perennemente in crisi eppure spuntano fuori case editrici come funghi e gli esordienti brulicano come formiche e questo paradosso già mi stritola tanto nella realtà che non voglio approfondire mai nella vita?

Subito dopo l’incipit è collocata la parte che contiene la sfida: l’occasione concessa dall’Editore ma con riserva e con una certa condiscendenza; seguono degli interrogativi così consunti tra i veri addetti ai lavori letterari che in questa finzione la Olivo li definisce “oziosi”, ma sa bene che invece sia questi che altri spunti simili possono essere stimolanti per un lettore che pensa appunto che ogni scrittore oscilli tra lo scienziato delle Lettere e il debosciato ubriacone (io appartengo più al terzo polo, non certo in politica ma quello classificato come il girone degli scrittori fanta-undergound nottambuli consumatori di dolcetti, ma questo è un altro discorso). Ma certo che a prenderle sul serio, certe questioni, sono inquietanti: conviene scrivere storie del Fantastico? (O piuttosto, direi io: che società fascistoide sarebbe quella che abbandona il Fantastico? Però il mainstream rende di più, e uno può infilarci dentro di contrabbando elementi distopici…) Ma poi, ragiona il protagonista: perchè scrivere distopie dovrebbe essere più difficile che non scrivere Fantascienza più classica? Il tema “era molto ampio, e per questo paradossalmente difficile”. E lui ondeggia ripetutamente tra certezza da incosciente di cavarsela con poco, e “ansia da prestazione” che lo porta a pensare ad altro procrastinando l’impegno. Ma è giusto che siamo così severi nel giudizio? In fondo ogni scrittore in qualche fase sperimenta questa irregolarità, questa inclinazione alla puntura da vaghezza che nasce dalla presunta necessità romantica di cercare l’ispirazione, quasi che fosse un impulso divino o qualche effluvio medicinale da inalare con un boccaglio di cristallo, boh. E il protagonista, spinto dalla Olivo come se fosse un carrello cigolante sui binari interni di una miniera di segreti da scribacchino, si inoltra a modo suo nella prassi di chi vuole inventare storie, e suggerisce, non con “spiegoni” ma con l’agire (o con un pensiero erratico), che si deve prendere spunto da qualsiasi cosa: una trasmissione radio, i classici del genere di riferimento, e la lista degli ingredienti, che a pag. 292 vengono snocciolati, compreso l’autobiografismo (opzionale, non necessario), che sul testo viene indicato come “un delirante incrocio con la sua storia personale”. Orkokane!, se è così io deliro in continuazione: dovrò chiedere ragguagli alla Olivo, che mi pare sia anche psicologa; per me sarà certamente un grave rischio sottopormi al suo check up, ahah!

Ma – direte voi – pur nella insolita chiave meta-letteraria, c’è la Fantascienza qui oppure lo scrittore non la trova? No, c’è, ma lui è in difficoltà, quindi trova… embrioni di Fantascienza, ovvero “Pillole di Scienza”, il programma alla radio di cui accennavo prima: il conduttore parla di optogenetica, di proteine particolari prodotte dalle alghe e che portano queste ultime a reagire in modo diverso alla luce. La sperimentazione di queste proteine sui topi può determinare nelle cavie delle allucinazioni; esattamente quello che mi serve giornalmente per concepire le storie mie (sono anch’io un’autore, ma chi mi segue lo sa bene) e che però mi capita non per le “opsine” delle alghe ma piuttosto proprio perchè ho delle evidenti deformità psicofisiche, di cui anche l’andatura risente pesantemente, ahah!, e meno male che attualmente viviamo in una distopia determinata da un Governo di Destra-Destra-Ahinoi, così nel casino generale nessuno se ne accorge.

Il fantozziano protagonista, invece, avanza in modo anomalo per altri motivi: porta ai piedi ciabatte smozzicate dal gatto, ma raggiunge in pigiama il letto ed è afflitto dagli echi della ex moglie nevrotica (quanto lo capisco, su questo) ma efficientista che sentenziava spesso: “Non si prova, o si fa o non si fa”; e un po’ di carattere ci vuole, lo dico anch’io, ma è pur vero che in questo caso non si tratta di aridi libri contabili ma di ideazioni creative, quindi la “ricerca” è ineludibile, e va detto che chi scrive regolarmente sa condurla in modo quasi sistematico, con gli strumenti prima accennati, ma che a volte scatta la serendipità, ovvero la scoperta euristica casuale mentre si cerca tutt’altro, come la paletta per la polvere di casa o il caricabatterie per lo smartphone; io posseggo un dosatore di detersivo liquido che simpaticamente riporta la scritta “Le migliori idee nascono lavando i piatti”. Ahah!

Ma comunque in questo racconto si percepisce che non si può andare avanti così, tra ideuzze derivate dal progresso scientifico e il trascinarsi quasi sterile del dilemma: ricorrere ai ferri del mestiere o scrivere di testa propria come al solito? Io propendo per il secondo metodo (ma si tenga conto che, come dicevo, sono facilitato dall’avere allucinazioni surreal-grottesche sin dai 12-13 anni), pur integrato dal primo e da spunti eterogenei che possono portare contemporaneamente alla disperazione e allo sghignazzo, per cui è meglio riprendere immediatamente a parlare della Olivo, chè è meglio. Intendevo appunto dire che nel racconto dell’odissea tutta mentale di Antonio Cavalloni non si poteva andare avanti così, senza un importante anche non sempre necessario “ingrediente”: il mistery tale, oppure il noir. La Olivo sembra avere un temperamento poetico-ironico, quindi non calca la mano restando coerente, ma l’ennesima divagazione dello scrittore, la vista fuori dalla finestra della sua casa in periferia, con un edificio adibito a uffici in cui si può osservare il rigido formicolio degli impiegati, rimanda vagamente a “La finestra sul cortile” di Hitchcock o magari a “Blow out” di De Palma, oppure, letterariamente, a classici del Fantastico come Landolfi e Bontempelli o a quel “Il punto nero” di Palazzeschi pubblicato da Urania qualche era geologica fa; forse esagero, ma “l’uomo alto con la giacca sgualcita” e “la donna col paltò rosso” sono figurine stilizzate che svolgono la funzione di catalizzatori dell’immaginario, potenziali calamite dell’assurdo, dell’impossibile, o del teatro beckettiano o quello della crudeltà di Artaud, mentre Simonetta Olivo riduce i lavoratori della standardizzazione spalmata a “omini meccanici” o al ricordo infantile di “burattini” ma dalle “movenze enfatiche” che già bastano a terrorizzare – volendo scrivere o pensare distopie.

C’è poi un altro passaggio intermedio in cui lo scrittore Cavalloni riprende ad ascoltare la radio permettendo alla Olivo di tirarlo di qualche centimetro fuori dalle “sabbie mobili di quel racconto sospeso” portando avanti la linea narrativa (fanta)scientifica della sperimentazione sui topi della combinazione opsine-fasci di luce-immagine predeterminata.

E subito dopo lui si distrae di nuovo guardando gli ominidi in vetrina degli uffici, e la coppia alienata dell’uomo alto e della donna col paltò rosso si anima, come prevedibile, sull’orlo della fatalità, tanto quanto lo scrutatore distante è sul versante voyerismo-impotenza (a intervenire). L’unico intervento possibile è con la solipsistica masturbazione psicanalitica della scrittura: Cavalloni però, malgrado un cognome da amatore stallone dalle lunghe leve, dopo aver assistito al dramma un po’ annacquato dei due che, appartati, litigano “furiosamente” con l’uomo un po’ odioso vincitore (ma pure le donne non scherzano per niente), non sa fare di meglio che pensare al titolo “Distopia dell’amore”, degno di quelle figurine innocue. “Che titolo!”, esclama invece lui, e si lancia in una riflessione sul femminicidio e sulla possibile trasposizione in una società del futuro dell’ansia gigantesca di porre fine alla sconcertante sequela di orrori sentimentali prima ancora che omicidiari a cui assistiamo da troppo tempo. Il lampo di speranza legato alla frase sulla fiducia che può portare ad abbattere il nuovo steccato fra i sessi, distopico, rimanda vagamente a un classico moderno come “Il racconto dell’ancella” di Margaret Atwood. Ma questa volta lo scrittore si castra consapevolmente da solo: “L’idea è buona ma c’è troppo… sentimentalismo” e “Che potrebbero dire? Ha scritto una storia per donne”; l’Olivo ha quest’altra trovata metaletteraria, e ci piace, ma certamente la frase, se presa nel contesto delle discriminazioni di genere, suona come provocatoria, fastidiosa, e in effetti serve per erodere il consenso attorno a “l’olimpo dei barbuti ed eruditi scrittori di Fantascienza”, in modo da richiamare anche l’accento di satira editoriale della prima pagina. Io comunque preferisco radermi, non solo perchè non starei bene con la barba, ma anche per non assomigliare troppo a quelli là, che pur di mostrare di aborrire “un eccesso di delicatezza” finirebbero per rinunciare anche a una narrazione baciata dall’amour fou alla Breton o “alla Truffaut“, che si potrebbe concludere con “una nota di pulp a rendere incisivo l’inesorabile epilogo”, scrive elegantemente Simonetta Olivo.

Lo scrittore disordinato e umanissimo si porta il rimuginio letterario anche al gabinetto, e mentre avanza il filone pseudoscentifico sulle opsine, che a noi tutti dà la speranza che alla fine il congegno narrativo scatterà, Cavalloni si ferma, campione d’autoindulgenza, dicendosi: “Il racconto non scappa” e anzi è convinto che una volta o l’altra lui si metterà lì di buzzo buono e l’opera uscirà “tutt’intera e senza sforzo”. Se fosse un cortometraggio comico, il racconto della Olivo, in questo punto si udirebbero sguaiate risate fuori campo.

E poi gli esercizi ginnici per la cervicale (pigrizia anche qui), la preparazione di una frittata, il “meritato sonnellino postprandiale”: ogni pretesto è buono per non scrivere, per Cavalloni, e per farlo bene, per la Olivo. Che qui colloca il turning point, non proprio il plot twist di cui parla il collega Viscusi quando è gasato; si tratta del rinforzo dell’intuizione precedente sulla macchinosità degli esseri umani: cloni/androidi e allucinazioni sono la chiave per muoversi dalle secche di un’ispirazione latitante. Si sveglia, si rincuora dicendo che la rassegna peripatetica casalinga sugli stimoli per la scrittura è stata utile anche se “non aveva buttato giù neanche un rigo” e traccia a caratteri cubitali il titolo: “Distopia”. Be’: inequivocabile, programmatico, stentoreo, un manifesto d’intenti. È l’acme del suo processo creativo, dopo il quale c’è il precipizio, il nulla pneumatico, l’annichilimento. La Olivo ci fornisce invece perfettamente il senso simbolico di questa catastrofe, ma io non ve lo riporto; andate a cercare l’Urania Millemondi intitolato “Distòpia”, con l’accento anglofilo, e leggetelo, il racconto.

Comunque, è la resa, anche se per portare a compimento almeno questa si dovrebbe riuscire a scrivere la lettera all’Editore. E invece, anche se in questo modo rapsodico, a scatti o blocchi, che non mi dispiace nella sua particolarità, il racconto – quello della Olivo – avanza, e le connessioni prendono forma: “erano tutti scomparsi”, anche gli esistenzialmente diafani inpiegati dell’ufficio, “È successo qualcosa”, il che è ciò che si chiede a una storia, e se poi i fatti si articolano in una trama, anche se non di cristallina chiarezza, il lettore evoluto accetta di metterci del suo, perchè spesso anche nella vita dobbiamo faticare a unire i puntini per capire qual è il disegno “superiore” o inferiore che ci imbriglia. Ma in questo caso è davvero la svolta definitiva, questa sparizione della Umanità, o forse dell’umanità residua? Ebbene, non lo è nella prospettiva che ci si aspetterebbe: l’autrice ne approfitta per un paragrafo di quel quotidiano che gli riesce così bene di esprimere, qui in modo ancora più “flat” e con gli oggetti che parlano di un disadorno abbandono, che in fondo non è una gran novità per il protagonista, ma il punto è che il terrore da unico sopravvissuto paradossalmente lo libera dalle responsabilità, come un tennista che si ritrova a perdere 0-4 e inizia, perso per perso, a lasciar andare il braccio; Cavalloni scrive l’incipit e si sente già di essere a metà dell’opera, secondo il noto adagio. Ma è l’alba, e dopo un po’ realizza, e noi con lui, che sarebbe la fine del mondo se in parallelo alla fine del mondo ci fosse l’inizio del suo sospirato racconto. No, invece, è solo l’ansia da prestazione letteraria ad averlo stressato, e sono state le ore serali a rendere deserte le strade e desolatamente vuoti gli uffici, pur con le luci rimaste accese.

Eppure, questi ultimi spunti narrativi sono meno gratuiti degli altri, perchè creano un humus emotivo di straniamento, di allucinazione (come si diceva) e di resa, su cui il mondo smorto della tranquilla periferia di Cavalloni, lo scrittore pigro, incontra una nemesi che è più solida, non rarefatta. Prima riceve la visita di un corriere-androide identico a lui, a cui non si oppone quasi lasciandosi sostituire, e anzi rallegrandosi del fatto che – anche se gli era sfuggita la notizia – il lavoro era morto, non ci sarebbero state più catene di montaggio fordiste e lui avrebbe potuto dedicarsi alla scrittura, ovvero combinare ben poco per tutta la giornata, distribuendosi tra poche comode abitudini, “quel che basta per un uomo solo”. E questo setting narrativo si spinge ancora oltre, dandoci l’idea che sia la chiave decisiva: ora il mondo, fuori dalla sua finestra, è di nuovo popolato, ma “Percepì il mondo per quello che era: uno scenario di cartapesta”, anche la donna dal paltò rosso, e… noi pensiamo che sia la naturale evoluzione di un mondo che è contaminato dalla sua presenza, dal suo stile di vita, e io stesso che scrivo questa recensione non mi sento neanche più tanto innocente, al riguardo, perchè amo questa Letteratura e pur ritenendo di non essere incosciente e vacuo, eppure – uomo solo anch’io mio malgrado e per la colpa conclamata della mia odiata/amata ex – mi ritrovo a essere infestato in certa misura da queste atmosfere e da questi modelli o anzi contromodelli, nobilitati però dall’immaginazione di Sartre con “La nausea” e “Il muro”, e dall’idea, simile a quella di Cavalloni, di uomini-androidi o insetti che ci stanno sostituendo a mano a mano dopo aver preso forma magari entro mostruosi baccelli giganti come ne “L’invasione degli ultracorpi” di Don Siegel, in quel 1956 teso per la Guerra Fredda, o dalla vague del realismo magico o surrealista all’italiana di autori come quelli che ho citato prima.

Ad ogni modo, l’inquietudine qui raggiunge un acme narrativo di cui si sentiva il bisogno, nel contesto rarefatto: dove sono le persone vere? Questo è un pensiero che fa martellare il cuore nella testa, trasmette un’ondata di gelo e fa distogliere lo sguardo dalla stolida copia di sè rimasta sulla poltrona del soggiorno – tutte reazioni documentate nonostante l’agitazione che gli fa pensare “Era impensabile, irrisolvibile, inspiegabile”; come tutto del resto, se uno lo mette sotto la lente d’ingrandimento: dalla foglia di felce sino alla balbuzie, dall’espressionismo astratto al reattore nucleare! La Olivo mette in testa al suo personaggio, per aiutarlo a uscire dall’ansia, il ricordo di un numero di una nota rivista di Psicologia, “Riza Psicosomatica”, in cui si consigliava, in caso di problemi irrisolvibili, di agire comunque, un po’ come un autoproclamato sciamano laicissimo, alla richesta mia di un consiglio pratico su una certa questione, mi disse: “Se sei di fronte a un bivio, imboccalo!” Divertente, ma io risposi “Grazie al cazzo!”, perchè era chiaro che questo tizio non aveva intenzione di aiutarmi concretamente, pur essendo ciò nelle sue possibilità. Si può anche argomentare che quando un tale si ritrova col cervello all’ammasso o con la corteccia frontale nell’anticamera della discarica, forse è bene che non “agisca” alla cieca, tanto per farlo, perchè se sente le famigerate “voci” – ipotizzo senza essere ovviamente uno specialista come l’autrice – e una di queste gli dice “Ammazza tua zia!”, sarà bene come minimo che lui non agisca affatto in tal senso, ma conti fino a dieci e poi si metta a leggere qualche fumetto di Paperino! Ahah!

Il protagonista invece torna a scrivere il racconto dopo aver deciso di sforzarsi di pensare il meno possibile, ma se già le idee non gli venivano prima, figuriamoci senza pensare! E allora passano altre ore quando, a maturazione di tutto quel clima emotivo in parte dovuto all’interno e in parte all’esterno (l’androide), giunge la nemesi definitiva, come dicevo prima. Se è tutto “una specie di incubo, sì, un sogno a occhi aperti” che s’è verficato – come dice il titolo – “a scrivere distopie”, allora è il momento del massacro, sia pure individuale. Bussano alla porta, e questo dà una parvenza di normalità ma, anche se non si tratta di un altro androide, è una di quelle persone che hanno sempre ispirato la creazione di androidi, per esempio in certi caposaldi della letteraria fantasmagoria del Fantastico: una femme fatale algida che Cavalloni fa entrare in casa e che si accomoda lì su quella poltrona dove avrebbe dovuto esserci il suo clone androide… Dov’è ora quel pupazzo? La sua mente illividita dallo stress l’aveva vomitato e adesso se l’è rimangiato?

Be’, ATTENZIONE: anche se sembra pazzesco, eppure effettivamente da questo punto in poi quasi ogni elemento del puzzle va al suo posto! Voglio cercare di non spoilerare – pur avendolo fatto fino ad ora – quindi rivelerò solo che non è l'”agire” alla rinfusa del protagonista a determinare lo… scioglimento della vicenda, ma al contrario è la sua irresolutezza come scrittore che ha determinato un orripilante risveglio da parte della forza opaca e un po’ odiosa della cosiddetta “realtà”, e intendo proprio con le conseguenze pratiche, odiose anche loro, di quanto precede. Ovvero: la donna, fredda e impietosa ma dannatamente attraente con le sue “gambe lunghe e muscolose, da atleta”, fa a pezzi lo scrittorucolo semplicemente perchè – per vie squisitamente fantascientifiche e… degne di un’antologia Urania Millemondi – SA TUTTO di lui e di come è andato avanti in quei giorni di “lavoro” e, dicendogli ipocritamente che lui le è simpatico, gli spiega i termini della situazione, sciogliendolo dai vincoli e determinando “il riaccostamento mentale”, l'”uscita dal trip”. Avendo analizzato lo sviluppo della situazione, costei stabilisce che lui è stato inibito non solo dall’evidente pigrizia ma da “un eccesso di razionalità”. L’efficiente segretaria – ben più razionale di lui ma legata a quanto pare da un contratto meno emotivamente inpegnativo di quello di Cavalloni, peraltro talmente inebetito che non prova neanche lontanamente a sedurla – gli comunica in modo sprezzante e beffardo che tutto ciò che lui ha sperimentato non erano che input: un’ampia dose di “ispirazione indotta”. È chiaro che il “patto scellerato” è sciolto d’autorità e che era di tipo editoriale!

Il messaggio del racconto della Olivo è quindi quello di una satira che trae origine dalle insindacabili considerazioni di Franco Forte, …forte della sua enorme esperienza che gli fa sicuramente affermare, come la donna in tailleur, che serve qualcosa di potente per spingere qualcuno a leggere invece che guardare una serie su Netflix (“AllFix” nel testo: come se nel futuro, ancora di più gli spettacoli multimediali “ripareranno tutto” – questa la mia vaga traduzione – soprattutto le alienazioni più comuni, mentre quelli che smarriscono i loro neuroni dietro progetti di scrittura incompiuti verranno forzati con contratti-capestro a mettere anche loro a profitto la loro nevrosi).

L’industria non può “perdere tempo con le sue vaghe ispirazioni”, viene detto al protagonista, che tuttavia, pietoso con noi tutti che adoriamo le distopie anche se ne abbiamo di fastidiosamente reali, compreso il Governo, contro cui combattere, ha il guizzo utile a venirci incontro con un patetico happy ending: quando la tipa se ne va e lui resta solo, si sente liberato per la seconda volta nella vicenda, ma in modo meno apocalittico e più pratico e personale, quindi finalmente prende a scrivere, addirittura “quasi euforico”. Simonetta Olivo invece ce l’ha fatta davvero e complimenti a lei (ma anche a qualche eventuale suggeritore, boh, se anche lei come il protagonista ha ricevuto qualche piccolo consiglio dal curatore o colleghi vari, ma non credo) per la capacità dimostrata in questa scrittura a patchwork e per la orgogliosa e deliziosa arguzia visionaria. 

il7 – Marco Settembre
lun 1/4/2024 06:36 + gio 4/4/2024 2:13 + dom 7/4/2024 2:19

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