Al TRAleVOLTE, a S. Giovanni (Roma), bestialità e relatività in un dialogo artistico

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Eh be’, signore e signori, il sottoscritto magari conterà come il sette di picche o di cuori 😀 ma ha un’esperienza da recensore che data dal 2008, e allora, dinanzi a un evento espositivo che si interroga sulla bestialità e anche su una certa relatività dei fatti e delle relazioni sociali, mi chiedo: che tipo di messaggio vogliamo condividere?

La mostra che si tiene dal 16 giugno (inaugurazione alle 18:00) al 7 luglio negli spazi prestigiosi dell’associazione culturale TRAleVOLTE, a piazza San Giovanni, con orario lun-ven h. 16-19, si interroga sulla bestialità ma anche su una certa relatività dei fatti e delle relazioni sociali, cercando di mantenersi in bilico tra drammaticità ed ironia. I temi urticanti sono sublimati in maniera intelligente e non troppo provocatoria (in effetti, la vera drammaticità non si lascia stemperare facilmente). L’esposizione dei lavori dei due artisti è curata in tandem da Maila Buglioni e da Ivan D’Alberto, i cui testi critici si integrano perfettamente. Nel testo della Buglioni si risale ai precedenti di ogni discorso sulla bestialità richiamando Darwin e la sua scoperta della nostra discendenza dagli scimpanzè, e Dante per il giudizio morale che colloca molti umani nell’Inferno della sua “Commedia”, e già nelle citate terzine dell’Alighieri troviamo il contrappasso alla bestialità umana, che non è solo nella punizione ma nell’errore e nella relatività di certi giudizi che in certi casi puniscono appunto senza riuscire a tener conto delle grane più sottili. “Perché sono ei puniti se Dio li ha in ira? E se non li ha, perché sono a tal foggia?” L’incontinenza si attira meno biasimo (ma un po’ sì), spiega il Sommo Poeta, ma io direi che nell’imponderabilità di certe sanzioni che piovono dall’ignoto osserviamo l’ira di un dio incomprensibile o il sadismo di tanti esseri “umani”. Relativo, seppur fatale, è il movimento inesplicato, alla Kafka, che persegue la vittima per una macchia perché è più facile, mentre il carnefice spadroneggia e magari si gode la villa con piscina. Come si riflette tutto ciò nelle opere in mostra? Non c’è ora al TraleVolte un “Guernica” di Picasso che denunci potentemente la furia bellica o la violenza di Governi e Stati. No, nella doppia personale degli artisti Francesco Andreozzi e Sara Zanin, la violenza è solo un sostrato, magari con una stimolante connotazione sessuale, tutto sommato discreta. Nei lavori pittorici curatissimi di Andreozzi troviamo quell’essenziale rarefazione iperrealista, rara nella nostra quotidianità, ma che appartiene a certo cinema: sembrano fotogrammi di tensione insoddisfatta che sublimano la rabbia e la bestialità facendone il fuori campo di un’esistenza raggelata e rassegnata in attimi emblematici ed enigmatici. Ciò a partire dall’inutilmente spompato giardiniere guardone che osserva con vagheggiante stizza il languore annoiato e intoccabile della proprietaria, stesa al sole, improbabile preda di pulsioni forse persino animalesche e fuori target; per poi passare allo scoramento fatalista di chi si ritrova a contemplare la propria automobile distrutta dalle fiamme in uno scenario desertificato, il che narrativamente lascia presupporre un dolo riconducibile a un tourbillion di intrighi a base di appalti truccati, mazzette trafugate, un paio di soggetti discutibili freddati a sorpresa con colpi alla nuca, torture sul povero cane del proprietario della bisca, istigazioni al suicidio, intimidazioni sibilline, pestaggi sotto al cavalcavia e via dicendo in preda all’inebriante trance della fiction a cui personalmente, da autore, mi abbandono volentieri. 

Nella fissità anaffettiva di questi oli su tela si scorge il margine per ricomposizioni umane di un qualche senso non completamente eroso. Il benessere borghese vagamente anni ’50 della tavolozza cromatica che tende al pastello nasconde qualche scompenso, un po’ come in “Blue velvet” di Lynch, ma ancora non è escluso il lieto fine, seppure con le avvertenze del caso. La Zanin mostra una maggiore tattilità pittorica rispetto al collega uomo, grazie alla sua tecnica più materica e all’approccio più espressionista e viscerale: in dialogo con la scultura (vedi oltre) ammiriamo un ritratto di profilo tra l’art brut e il fumetto; in altre prove, viluppi cromatici astratti sono avvolgenti attorno a elementi figurativi umani e in un caso ricorda Kokoshka, con una figura femminile morbida che galleggia nello spazio (del quadro) ma insidiata da creature dell’assurdo alla Beckett o alieno: identità messe in dubbio dal disincanto postmoderno.

Incide di più sul tema con l’allusiva ma ironica e polisemica scultura che rappresenta una buccia di banana. Questo oggetto plastico in cera persa è un feticcio residuale, versione post coitumdell’iconica copertina di Warhol per il primo disco dei suoi Velvet Underground, e il pensiero va allo spirito gaudente che animava la Factory). Ma secondo me è anche la forma pop del clinamen di Epicuro e poi Lucrezio: si scivola sulla buccia di banana, simbolo di una libertà umana (sessuale? Libertaria? Libertina?) che può essere feconda nel trovare aggregazioni tra atomi e tra persone ma può anche presentarsi come quell’imperscrutabile incidente bestiale che rovina forse irrimediabilmente una vita.

Esiste la possibilità di altri clinamen successivi o di capovolgimenti inerziali o di paradossi temporali, certo, ma la bestialità può forse conoscere accomodamenti e sfumature? Si può contenere in insaziabilità? Il cinismo può essere arginato dall’estetismo? Il clinamen è arbitrario: crea o distrugge. La risposta è nell’essenza, che può anche essere neobarocca ma che è Arte e che richiede impegno per giungere a una definizione che sia il migliore compendio. Cosa ricaviamo dunque da questa splendida mostra che suggerisce pesantezze in una piccola rete di equilibri? D’Alberto cita “La fattoria degli animali” di Orwell, da cui il correlato musicale, “Animals” dei Pink Floyd: l’umanità è suddivisibile in tipi di bestie. Io aggiungerei che anche la narrativa distopica e cyberpunk ci impressiona perché sia nelle catastrofi sia nelle evoluzioni del Postumanesimo proviamo nostalgia per quell’umano che ci sfugge non solo nella sua corporalità originaria ma anche nella dimensione della coscienza. D’altronde, anche l’intellettualismo per alcuni può essere bestiale perché fagocita la realtà, la consuma, fonda l’erotismo ed esalta l’oggetto del suo amore ma forse logora entrambi in patchwork decadenti; se qualcosa si perde lascia i resti in giochi di specchi, di scacchi e di identità come in “La mostra delle atrocità” di James G. Ballard: il volto desiderante e soffertamente contorto di un relativismo che non è per tutti ma che ci affascina in prospettive cangianti senza fine, in cui lui e lei si cercano in sfaccettati paradossi, e lui potrebbe essere sempre lui anche se contestato da qualcuno, e lei potresti essere tu e una riedizione dell’ideale decaduto. È tutto relativo, nelle bestialità di testa sentimental-erotiche.

il7 – Marco Settembre

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